Franco Leoni scrive a Luppi, il giocatore protagonista del brutto gesto in campo: «Quel ragazzo non va punito, va educato». E ricorda quei giorni, nell’autunno 1944, quando aveva 6 anni: «Sparavano, io e mia mamma ci buttammo in un fosso, presi tre pallottole. Lei fu colpita al ventre, era incinta. Morì davanti ai miei occhi»
Una voce fuori dal coro. La voce di un uomo che nella vicenda del saluto romano a Marzabotto ha più titolo di tanti altri a parlare. Quest’uomo — il suo nome è Franco Leoni Lautizi — è un sopravvissuto. Ha vissuto sulla propria pelle gli orrori compiuti dai nazifascisti. E ne porta ancora le ferite dentro. Eppure Franco, oggi quasi ottantenne, dice parole tutt’altro che scontate. Molto più pacate di quelle pronunciate in questi giorni da tanti altri. Franco parla di perdono, di rieducazione. È questa la strada, per lui, non certo quella della denuncia o del sequestro della maglietta. Atti che gli sembrano eccessivi e alla cui efficacia non crede. Ne è talmente convinto che a Eugenio Maria Luppi, il calciatore dilettante finito nella bufera per quel saluto romano in campo dopo il gol nel paese teatro di una delle più feroci stragi naziste, ha scritto una lettera. Invitandolo a un incontro. «Voglio raccontargli quello che è accaduto a Marzabotto. Credo che quel ragazzo non conosca la verità».